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Il nuovo Codice deontologico del medico italiano sancisce, da una parte, il diritto del paziente a ricevere informazioni - fornite con attenzione e sensibilità - circa la sua malattia e, dall'altra, il dovere del medico ad ottenere un consenso informato da parte del malato su eventuali procedure diagnostiche e terapeutiche. In Italia si sta abbandonando la posizione paternalista, derivata dall'antica medicina ippocratica, dove solo il medico conosce e decide con la sua autorità, e si va sviluppando il principio di autodeterminazione (dottrina del consenso informato), secondo cui il paziente è visto come parte attiva nel processo della decisione circa cure e trattamenti. Tale dottrina ha assunto particolare rilievo in oncologia.
Un problema non sempre facile da risolvere è quello del come tradurre nella pratica clinica il consenso informato, tenendo conto di una situazione urgente, ambigua dal punto di vista prognostico e soggetta a continui mutamenti, quale può essere - spesso - quella dei pazienti oncologici. Tale problema non investe soltanto i medici, che sono legalmente vincolati dalla richiesta del consenso, ma coinvolge anche le altre figure professionali che prestano assistenza al malato, in quanto un clima complessivo consenziente o meno con l'orientamento del medico può essere facilitante o, al contrario, destabilizzante per lo sviluppo della relazione terapeutica.

Nonostante l'orientamento legislativo ponga sempre di più l'accento sull'obbligo del consenso informato, numerosi studi riportano che meno del 50% degli operatori informa correttamente i malati di cancro; ciò sottolinea un'inadeguata preparazione al dialogo con il malato ed i suoi familiari. Analizzando l'ampia letteratura a disposizione emerge, invece, quanto un valido modo di comunicare influenzi positivamente l'atteggiamento psicologico del paziente oncologico, con notevole miglioramento della qualità di vita.

Il paziente
Il paziente ha diritto di essere informato, di scegliere se e a quale trattamento sottoporsi e di conoscere eventuali rischi per la sua integrità derivanti da procedure diagnostiche o interventi chirurgici; pertanto, in generale, è giusto ed etico informare il paziente, rispettando sempre la sua sensibilità ed i corretti tempi e modi dell'informazione.
Questo nuovo modo di procedere pone però alcune problematiche, tra cui quella costituita dall'inquietante domanda: il malato desidera effettivamente conoscere la propria diagnosi e la relativa prognosi?
Da numerose indagini effettuate intorno agli anni settanta/ottanta, negli Stati Uniti, nell'Europa del Nord e in Giappone, la volontà dell'ammalato di conoscere la propria diagnosi, anche se relativa ad una malattia grave, è valutata in una percentuale oscillante tra il 70% e il 90%. Per quanto riguarda la volontà di conoscere la prognosi, anche se infausta, i dati sono più contrastanti, variando dal 30% all'80%.

Uno studio pubblicato nel 1998, a sottolineare un mutamento sostanziale nell'evoluzione culturale del paziente, ha dimostrato che la maggior parte dei malati di cancro desidera conoscere esattamente la diagnosi e la prognosi della propria malattia, le possibilità di cura ed i più rilevanti effetti collaterali, esigendo di essere direttamente coinvolta nelle scelte e nelle decisioni che riguardano la strategia terapeutica. Il desiderio di non conoscere tali informazioni viene espresso solo da una minoranza dei casi, soprattutto da parte di soggetti anziani, di soggetti in fase avanzata di malattia o provenienti da aree socio-culturali meno evolute. L'autore dello studio rileva la presenza di una frequente discrepanza fra i desideri e le aspettative che il paziente ripone nella comunicazione con il medico e le modalità con cui tale comunicazione viene fornita. Molto spesso gli specialisti informano il malato in maniera meccanica ed impersonale, senza permettere al paziente di esprimere dubbi e preoccupazioni. Il medico, così operando, alimenta uno stato di ansia nel malato, lo rende incapace di comprendere ed interpretare correttamente le notizie che gli vengono fornite e facilita l'elaborazione di un quadro distorto e spesso peggiorativo della realtà.
Sebbene nei malati di cancro un certo livello di ansia e di depressione sia inevitabile e rivesta anche un significato di adattamento per l'individuo nel rapporto con la realtà, stati psicopatologici sottovalutati - e quindi non trattati - aumentano la sofferenza, peggiorano la qualità della vita e possono compromettere l'aderenza alle cure, rappresentando una vera e propria malattia nella malattia.

Il medico
Il Codice deontologico cerca di tradurre nella pratica clinica l'esigenza di salvaguardare la libertà dell'individuo nella gestione della propria salute come un valore fondamentale e sottolinea che il consenso informato non va inteso dal medico come strumento di difesa da eventuali conseguenze giudiziarie, ma come mezzo fondamentale per rispettare la dignità del malato, per mobilitarne le risorse e per consentire un rapporto di fiducia/alleanza. È inoltre auspicabile che il consenso informato non sostituisca, ma integri il dialogo, la comunicazione e la decisione consensuale; fasi, tutte, che esprimono e rafforzano una relazione serena e matura tra il malato ed il medico.

Per poter applicare correttamente nella pratica clinica il consenso informato occorre tenere presente l'esistenza di fattori che, soprattutto in ambito oncologico, possono interferire con una serena comunicazione. Essi sono il ruolo del medico, il contesto in cui questi si trova ad operare, la malattia, la relativa terapia ed il contesto familiare del paziente.
Il medico, nello stabilire la strategia terapeutica per ciascun paziente, si trova di fronte a difficoltà di carattere decisionale e comportamentale, in quanto la necessità di una comunicazione chiara ed obiettiva può entrare in contrasto con la preoccupazione di avviare una relazione difficile con il paziente.

Infatti, in un recente lavoro emerge - dalle risposte ad un questionario sulla comunicazione in oncologia - il contrasto tra l'accordo prevalente sulla necessità di una comunicazione chiara circa diagnosi, prognosi ed opzioni terapeutiche da un lato e la pratica clinica dall'altro, in quanto un numero rilevante di medici tende ad occultare verità spiacevoli per il paziente, anche per evitare la manifestazione di proprie emozioni e sentimenti.

La maggior parte della letteratura considera necessaria una formazione specifica per il medico poiché né la conoscenza scientifica, né l'addestramento tecnico sono di per sé sufficienti a scindere il legame del personale curante sia con la propria cultura che con le esperienze personali e familiari.

La comunicazione è inoltre influenzata dall'ambiente in cui vengono ad interagire il medico ed il paziente (struttura ospedaliera, ambulatorio, day-hospital, ecc.) ed in un tale contesto assume un ruolo rilevante tutto il personale coinvolto nell'assistenza del malato. I reparti e le strutture di assistenza medico/oncologica ad elevato livello tecnologico sono spesso fortemente orientati alla rapidità ed alla produttività, lasciando sempre meno tempo all'équipe curante per condividere ed elaborare gli aspetti emotivi e le responsabilità deontologiche.
La corretta informazione del malato può essere, inoltre, resa difficoltosa da fattori inerenti la patologia stessa. Le procedure diagnostiche e terapeutiche sono sempre più complesse e sofisticate, spesso difficili da essere spiegate in termini semplici e comprensibili per il malato. È per questo motivo che l'informazione non può essere una "pratica" da espletarsi in pochi minuti, ma rappresenta invece un processo graduale che può richiedere ripetuti contatti fra medico e paziente: il medico potrebbe avvalersi di specifici programmi di informazione.

Una informazione chiara e sincera può, infine, incontrare un ostacolo nel contesto familiare del paziente. Se nella maggioranza dei casi il malato desidera conoscere la diagnosi, la stragrande maggioranza dei familiari vuole che questa gli venga accuratamente occultata. Tale comportamento può essere interpretato come una modalità psicologica mediante la quale il familiare fa fronte alla sua angoscia di morte. L'insistenza del familiare non deve comunque interferire sulla possibilità che tra medico e paziente si costituisca una franca ed aperta comunicazione. Il medico dovrebbe, proprio in queste situazioni, aiutare i familiari a comprendere quali potrebbero essere i vantaggi di un rapporto che si basa sulla chiarezza e sulla verità e quali, al contrario, potrebbero essere gli svantaggi di un rapporto insincero, motivato da malintesa pietà. Per superare questo ostacolo, una corretta formazione psicologica, unitamente alla disponibilità di adeguati programmi di informazione, potrebbe agevolare il difficile compito del personale curante.

Programmi di informazione
I programmi di informazione consistono in una serie di interventi appositamente studiati al fine di aumentare la conoscenza del paziente sulla malattia, sul trattamento e sui più comuni problemi da affrontare. Il presupposto di questi programmi è che un aumento della conoscenza diminuisca il senso di smarrimento e di incontrollabilità, favorisca comportamenti più adeguati ed una partecipazione più attiva alle cure.
Oncologo, chirurgo, infermiere, dietologo, psicologo, assistente sociale trattano in modo didattico e chiaro gli argomenti di loro competenza.
L'integrazione di diverse figure professionali permette di fornire un'informazione globale, dando al paziente la certezza confortevole che l'intera équipe terapeutica agisca concorde durante tutto l'iter terapeutico.
L'informazione può essere dispensata con diverse modalità. Negli ultimi anni studi clinici controllati su pazienti con diversi tipi di tumore ed in diverse fasi di malattia hanno dimostrato che i programmi di informazione hanno effetti positivi sull'impatto emozionale causato dalla diagnosi, sui livelli di ansia e depressione, sui rapporti con le figure sanitarie e sull'aderenza del paziente alle indicazioni terapeutiche. In definitiva, forniscono un significativo contributo al miglioramento della qualità di vita.

Interazione medico/paziente
Una corretta impostazione dell'interazione fra medico e paziente, con le sue complesse implicazioni giuridiche, psicologiche e sociali richiede attenzione specifica ed assidua da parte del personale sanitario. Numerosi lavori in materia sottolineano tale consapevolezza ed evidenziano uno sforzo diffuso nell'elaborazione di metodologie specifiche di comunicazione. Pur tuttavia, ad oggi non sono state raggiunte conclusioni univoche ed il processo informativo non può che attenersi a indicazioni di massima e alla esperienza e formazione del singolo specialista.

Girghis e Sanson-Fisher hanno redatto linee guida sulla base di una revisione della letteratura e delle raccomandazioni di un "Consensus panel" di medici e malati di cancro. Tali linee guida suggeriscono di: 1) garantire al malato la riservatezza dei dati personali e tempi adeguati di comprensione ed elaborazione; 2) fornire informazioni circa la diagnosi e la prognosi in maniera semplice ed onesta, evitando l'uso di eufemismi; 3) assicurarsi dell'avvenuta comprensione, da parte del paziente, dei contenuti dell'informazione; 4) incoraggiare il paziente ad esprimere i propri dubbi, ansie e sensazioni; 5) avere sempre e comunque un atteggiamento positivo e costruttivo; 6) mettere a disposizione del paziente e della sua famiglia un adeguato materiale informativo.

In aggiunta a tali linee guida, è utile ricordare che il Codice deontologico pone l'accento sulla necessità di tenere conto della personalità, del linguaggio e del livello culturale del paziente nonché del suo stato emotivo.
Informazione e comunicazione, che hanno inizio con il processo diagnostico e proseguono durante tutto l'iter terapeutico, richiedono impegno, fatica e coinvolgimento emozionale anche da parte del medico. Se la componente emotiva del paziente viene ignorata, non si risparmiano sofferenze al malato, né si rende più obiettiva l'informazione; al contrario, si consente una distorta interpretazione della realtà, rischiando di non reperire i mezzi per correggerla ed elaborarla in una fase successiva.
Ad oggi, nella maggior parte dei casi, il personale curante non possiede tali competenze. Infatti la corretta comprensione delle componenti emozionali deriva da una formazione specifica, strutturale per lo psicologo, ma non ancora prevista per il medico.
Si è perciò convinti, in pieno accordo con i dati della letteratura, che una corretta comunicazione medico/paziente possa realizzarsi soltanto attraverso una adeguata formazione dell'intera équipe curante

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